Annibale Crosignani trovò nel professor Jervis, collaboratore di Basaglia, un amico e una guida nel compiere i primi passi nel mondo della psichiatria pratica facendogli comprendere, in primo luogo, il ruolo del Manicomio come custodia di elementi scartati da un processo di pulizia sociale. Funzionale a questo ruolo del manicomio era lo psichiatra, il cui compito era quello di etichettare questi soggetti scomodi per la società, come malati mentali e portatori di elementi di pericolosità sia per sé stessi che per la società. Una vera zavorra sociale. Naturalmente questa pericolosità era il più delle volte fittizia e ingiustificata. Il racconto di Annibale Crosignani si sofferma sulla descrizione della realtà quotidiana dei manicomi torinesi di Collegno e di Via Giulio, più simili nei metodi e nei ritmi della vita a carceri che a luoghi di cura. La stessa denominazione dei reparti del manicomio era quanto di più lontano si potesse immaginare da concetti nosologici o di patologia, priva di alcun significato clinico. Questa sistematizzazione riportava le caratteristiche comportamentali dei soggetti reclusi al loro interno. Così nel reparto delle furiose venivano segregate le persone più reattive, di cui almeno l'80% era legato con cinghie di contenzione ai letti o ai termosifoni. Nei reparti delle tranquille o semi-tranquille vigeva un altro clima. Altri reparti erano quelli delle oligofreniche e delle maniache suicide. Il basso livello culturale e professionale del personale medico e infermieristico era adeguato ai compiti di semplice custodia e di contenzione degli internati. Il personale era posto in stretta dipendenza gerarchica delle suore caposala dei vari reparti.
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